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di Andrea Terzi- da ilpunto.it
Chi la settimana scorsa si aspettava da Mario Draghi l’annuncio di un Piano B per rimettere in moto l’economia europea è rimasto deluso. A chi gli chiedeva se la Banca Centrale Europea non sia per caso in grave ritardo rispetto all’attivismo dei suoi colleghi americani e giapponesi, Draghi ha replicato difendendo l’operato della Bce sulla base di due principali argomenti:
a) il successo dell’Omt (Outright Monetary Transactions) e
b) i vincoli di mandato della BCE.
Annunciato da Draghi nell’estate del 2012, l’Omt non è mai stato attivato, e può apparire singolare che Draghi lo consideri «lo strumento più potente» della politica monetaria della Bce. Ma il motivo è evidente: esso rappresenta quella potenza di fuoco che con l’intensificarsi della crisi era stata auspicata da un crescente numero di osservatori (1) e il suo inserimento tra le munizioni della Bce ha avuto effetti positivi sui differenziali di rendimento, le borse, la volatilità, contrastando con successo il “redenomination risk”, ovvero il premio per il rischio di possibili uscite dall’euro.
Quanto al vincolo di mandato all’interno del quale la Bce è chiamata ad operare, mi pare che per comprendere meglio il quadro concettuale di riferimento di Draghi sia utile considerare le conclusioni di un recente studio della Bce (2) in cui gli autori paragonano la crisi iniziata nel 2010 a quella del 1931. Allora, al posto della Grecia, o della Spagna, o di Cipro, c’era la Germania.
Il rischio è ripetere la crisi tedesca del ‘31
La  “madre di tutti i mandati” di una banca centrale è massimizzare il benessere sociale di lungo periodo. L’autorità monetaria deve quindi poter disporre degli strumenti che consentono di contrastare efficacemente le crisi di liquidità che minando la fiducia nelle banche e nei titoli di stato compromettono la solvibilità di ogni altro debitore privato e pubblico. Nessun’altra istituzione può disporre dello stesso potere di cui gode il produttore monopolista della moneta. Eppure, come sostengono gli stessi autori, a mettere in difficoltà la banca centrale nel prefiggersi tale compito può essere la presenza di obblighi di natura giuridico-istituzionale, quali:
- una parità fissa obbligata (con l’oro o con valute straniere),
- i requisiti minimi sul collaterale nei prestiti concessi alle banche,
- i limiti al volume dell’indebitamento concesso alle banche e
- i limiti al finanziamento dei debiti di stato.
Nell’elenco qui sopra ogni osservatore della crisi europea riconoscerà i vincoli di cui si è molto discusso. In particolare, come spiegano i ricercatori della Bce, i limiti al finanziamento degli stati costringono le banche a diventare prestatrici di ultima istanza degli stati, ma ciò a sua volta mette in moto un “circolo diabolico” tra solvibilità degli stati, solvibilità delle banche ed economia reale. Come è regolarmente accaduto.
La Reichsbank, nel 1931, la sfida la perse. E, come scrivono gli autori, i motivi che impedirono alla Reichsbank di agire furono gli impegni interni e internazionali che il presidente Luther non volle rompere, confidando che sarebbe riuscito a sanare la situazione in tempo utile. Sappiamo invece che la Bce questa sfida l’ha fin qui vinta grazie alle tempestive decisioni in materia di:
- finanziamento illimitato alle banche (ovvero le aste a tasso fisso e piena assegnazione),
- ampliamento della lista del collaterale, e
- Omt, che Draghi ha difeso di fronte al Bundestag spiegando che non contiene alcuna minaccia per l’inflazione.
Nell’ottica del confronto con la Germania del 1931, la Bce ha dunque evitato l’esito funesto della crisi interpretando correttamente il proprio mandato istituzionale di assicurare la sopravvivenza della moneta senza venir meno alla stabilità dei prezzi.
Il Piano C
Ma allora perché, dopo aver affrontato con successo le spinose questioni di cui sopra, Draghi fa ancora riferimento ai vincoli all’interno dei quali la Bce è chiamata ad operare? Mi pare che lo studio citato offra un’interessante chiave interpretativa.
Discutendo il caso dell’eurozona, gli autori sottolineano due particolari limiti operativi con possibili riflessi depressivi sull’economia reale: non solo l’assenza di un’unione bancaria ma anche quella di Eurobonds. I titoli di debito di ciascuno stato, spiegano gli autori, sono legati ai destini dei singoli paesi e, come accadde nella Germania del 1931, il divieto di finanziamento del debito costringe lo stato a ridurre il proprio fabbisogno mettendo in atto politiche di austerità che finiscono per prostrare l’economia senza poter contribuire alla soluzione del problema.
Draghi ha dunque ragione quando afferma che la Bce non può offrire un Piano B per l’economia reale. È l’Europa politica che dovrebbe proporre un Piano C che comprenda non solo l’unione bancaria, ma anche la creazione di un mercato di titoli europei e una decisa svolta verso la fine dell’austerità nell’eurozona.
Sull’unione bancaria Draghi ha parlato forte e chiaro. Forse dovrebbe fare altrettanto per richiamare l’Europa alle proprie responsabilità, la più grave essendo quella di aver messo in moto una devastante politica pro-ciclica che assomiglia troppo a quella della Germania di 80 anni fa, quando la Reichsbank, convinta che il disastro si sarebbe potuto evitare, traghettò il proprio paese e l’Europa tutta verso la tragedia della dittatura e della guerra.
Certo, non ci si può aspettare molto dai leader europei che hanno prodotto il pasticcio di Cipro, senza contare l’assenza forzata dal palcoscenico europeo di uno stato fondatore senza un governo nel pieno delle proprie funzioni. Ma è anche per questo che Draghi, oltre ai moniti sulle riforme strutturali e sui bilanci dei singoli stati, dovrebbe volere affrontare anche questa emergenza, che mettendo a repentaglio l’economia reale, tiene quella monetaria sul filo del rasoio. Sembra che i ricercatori della Bce lo abbiano ben compreso.
*Docente di Economia, Franklin College e Università Cattolica
(1) Ad esempio, su LaVoce, A. Terzi, Il grande bazooka della BCE, 21.11.2011
(2) Ulrich Bindseil and Adalbert Winkler, Dual liquidity crises under alternative monetary frameworks: a financial accounts perspectiveECB, Working Paper Series, NO 1478, October 2012
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