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..la questio trattata è di indubbia profondità, la paura dell'essere è atavica e la paura della responsabilità di autogoverno è ancor più grande; i motivi adotti da Marco nell'articolo sono chiari e avvincenti nel farci comprendere i motivi che muovono queste paure, una lucidità d'analisi della realtà sarda , spero però che quanto affermato per is "torraus a domu" non siano l'unica speranza per la nostra terra, ma, siano i giovani locali la speranza dei sardi tutti; che siano intellettuali o proletari in affanno per uno stipendio da pastore o giovani disoccupati.. uomini che si sforzano a dar vita alla riscossa di cui abbisognamo per vivere, come dice Oggianu in ultima analisi, da cittadini liberi e felici in questa terra colonizzata  e martoriata. 
Sa Defenza

Marco Oggianu


E’ una vecchia strategia coloniale quella di spingere all'emigrazione uomini e donne di una Nazione sottomessa. E' una politica che nel nostro caso ha radici nel vecchio Regno di Sardegna, esattamente dall’inizio del XIX secolo, dopo la fine di Napoleone e la repressione dei moti rivoluzionari angioyani che puntavano a creare una Repubblica Sarda Indipendente su ispirazione di quella francese. Da allora i Savoia decisero che bisognava impedire assolutamente la creazione di una borghesia rivoluzionaria sarda, sia in senso economico, che politico, che culturale. 

La Sardegna doveva diventare terra di funzionari che amministravano gli interessi piemontesi, o di agricoltori e pastori disorganizzati, poveri e ignoranti, o di forza lavoro per le aziende piemontesi. Favorire le scuole classiche e letterarie al posto di quelle tecniche e economiche, favorire il potere della chiesa e in particolare dei gesuiti, favorire la creazione di una classe dirigente fedelissima e parassitaria, che vivesse di rendita in base alla sua fedeltà al Regno e alla dominazione straniera. Impedire in tutti i modi la nascita di piccole aziende attraverso una politica fiscale protezionista e la totale mancanza di infrastrutture, che rendevano i costi dei trasporti proibitivi. 

In seguito la tattica fu anche di controllare qualunque tipo di sviluppo capitalista e industriale avvenisse in Sardegna, in modo che non fosse spontaneo e autoctono, ma che venisse imposto da fuori e avesse come protagonisti imprenditori di fuori, meglio ancora se appartenenti alla grande industria e finanza assistita e protetta dallo Stato. 

I Sardi insomma dovevano essere allevati o come futuri emigrati, o come lavoratori assistiti di aziende in perdita. Lo Stato spendeva non per creare profitto ma per creare cittadini fedeli e dipendenti, per autoconservare la propria integrità. A questo va aggiunta la politica tesa a militarizzare la Sardegna, la propaganda per gli arruolamenti di massa in qualunque corpo dell’esercito o di polizia. Funzionari per procura, militari, sgherri, lavoratori assistiti, il resto doveva (e deve) essere spinto a emigrare. 

In Sardegna venne favorita una scuola di tipo umanistico-classico, esaltatrice delle glorie di Roma, del Risorgimento e della cultura italiana, vista come superiore e redentrice nei confronti di quella Sarda, indicata come inferiore, arretrata e istintivamente delinquente. Cancellare nei Sardi ogni traccia di coscienza nazionale, storica e sostituirla con un autorazzismo e un complesso di inferiorità diffuso che sfociasse nell’abbandono, nel rifiuto di se e della propria terra. 

Creare questa sorta di mutanti, di cyborg, emigrati mentali e fisici alienati completamente dalla propria essenza. La classe intellettuale sarda ne è un esempio: disfattista, autorazzista, bravissima nel descrivere una Sardegna isolata, incapace di fare storia, violenta, selvaggia, arretrata e fiera della propria arretratezza, bravissima nell’esaltare questa arretratezza come qualcosa di chic da offrire a turisti esotici abbigliati per i Safari. 

Bravissimi nel raccontare un mare di menzogne e una terra mai esistita se non nei loro cervelli insani. Alla scuola in tempi moderni si aggiungono TV e strumenti mediatici, i quali mostrano al cyborg sardo un mondo oltre il mare fatto di ricchezza, successo, bellezza, elevazione culturale e morale, per alcuni di ballerine, magnati, scudetti, miliardi, per altri di rivoluzioni, lotte sociali, progresso, salotti culturali. 

Cose che solo oltre il mare sono possibili, qui o ci si rassegna a servire, a sopravvivere, a consumare ciò che il vero mondo ci offre, o si prende la nave. Una pulizia etnica soft, fatta in maniera raffinata e non violenta, molto più efficace di quella in stile bosniaco. I maggiori quotidiani Sardi, voce della stessa classe dirigente e intellettuale disfattista e reazionaria ancora oggi seguono alla lettera tale strategia. Servizi su emigrati che ce l’hanno fatta si affiancano a interviste a assi del pallone che invitano a imparare lingue straniere, fare le valige e andarsene.

Tale strategia però ha funzionato finché lo Stato aveva la forza e i mezzi per pagare la propria autoconservazione, finché aveva il monopolio della cultura e della formazione dei suoi sudditi. Oggi non solo questi mezzi sono sempre meno, ma molti Sardi che l’emigrazione l’hanno vissuta pian piano tornano, si rendono conto, e formano, proprio loro, quella borghesia illuminata e rivoluzionaria che si voleva evitare nascesse. 

Sono loro l’unica speranza per la Sardegna di domani, una Sardegna viva, aperta al Mondo, ricca, Indipendente. Una terra dove gli uomini e le donne non vadano più via, ma vengano e vi abitino da cittadini liberi e felici.     

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