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Cuperus 1 (1)





Stiamo scontando una drammatica frattura fra élites e non-élites. Il processo di adattamento al Nuovo Ordine Globale ha comportato un profondo difetto di comunicazione fra le élites e il resto della popolazione. Le tensioni che il processo comporta si scaricano su coloro che non riescono ad avere accesso alla nuova economia internazionale basata sulla conoscenza: il personale dequalificato o poco-qualificato. Del resto il discorso pubblico imposto dalla globalizzazione si mostra particolarmente severo proprio con la parte più povera della classe media e con chi non ha una formazione medio-alta.
Questo pregiudizio è per altro una delle ragioni di fondo del risentimento e delle rivolte populiste. La politica dal canto suo si mostra capace solo di produrre insicurezza e incertezza, invece di mostrare chiarezza di idee e stabilità di leadership in un mondo in trasformazione. Disagio e sfiducia allignano nella società europea contemporanea ai più vari livelli, non sono cioè mere implicazioni della riforma del welfare state. Siamo di fronte ad un generale processo di slittamento a destra; il magico periodo del dopo-guerra sembra davvero finito. L’idea post-bellica di unificazione europea, il coevo modello di welfare, ma anche il clima di tolleranza post-Olocausto sembrano ormai svaniti o comunque gravemente sotto pressione. La generale tendenza alla internazionalizzazione (globalizzazione neoliberista, immigrazione di massa, integrazione europea) sta creando un gap di fiducia e di rappresentatività fra élites e popolazione, relativamente a questioni quali la giustizia sociale e l’appartenenza, cioè l’identità culturale e nazionale.
Ci sono quanti allontanano con fastidio un certo elettorato frustrato, considerandolo puramente e semplicemente epigono di una crescente xenofobia nazionalista, ammasso di spaventati nemici della “società aperta”, gente che volta le spalle al futuro, negatori del nuovo ordine mondiale, ecc. Ma bisogna guardarsi da critici di questo tipo. È molto pericoloso che una elite cosmopolita e post-nazionale si metta a sottilizzare, trascurando del tutto il problema dei caratteri nazionali di uno stato democratico e in genere dell’identità nazionale; tanto più in un momento in cui lo stato nazionale è per molti versi l’ultimo appiglio cui aggrappare la propria identità, un faro di verità in un mondo in caotico cambiamento. Così è inutile che un malinteso cosmopolitismo neghi le forze radicalmente polarizzate che sistematicamente dividono la società. Certe illusioni ireniche non sono che la cifra di una estremamente debole tenuta dell’Europa come insieme socio-culturale e politico, cui corrisponde puntualmente la continua crescita dei movimenti populisti radicali di destra e di quelli ‘protezionisti’ di sinistra. Si tratta insomma di una crisi di credibilità e di capacità di rappresentanza di fronte alla nuova linea di faglia sociale fra i cosiddetti vincenti della globalizzazione e gli sconfitti.
L’Europa soffre, con ritardo, di un trauma da immigrazione. Certo in molti paesi l’immigrazione è fattore di supporto dell’economia e contribuisce a sostenere i sistemi sanitari e di welfare, ma comporta però anche seri problemi di povertà e marginalizzazione. Disoccupazione, abbandono scolastico, povertà, criminalità, segregazione: questi sono i sintomi di una integrazione fallita. Che provoca reazioni spesso violente. In quasi tutta Europa prendono piede partiti populisti contrari all’immigrazione, in certi casi hanno anche successo. E cresce la rivolta popolare contro la diversità e il multiculturalismo. Così da costituire una minaccia per la realizzazione dei fini sociali e culturali di una autentica “democrazia sociale”. Contrastare questa tendenza (affrontandone le cause profonde) è una delle sfide più pressanti per la socialdemocrazia europea.
Infatti il rischio maggiore per la società contemporanea è che si scavi un solco senza precedenti fra chi ha un’educazione di livello e chi la ha bassa, fra chi ha un orientamento cosmopolita rispetto ai nazionalisti o anche fra libertari e autoritari; fra chi anela al futuro e chi lo teme, ecc. Divisione che, come detto, dipende dai movimenti tellurici della globalizzazione, delle migrazioni di massa e da una economia post-industriale centrata sulla conoscenza.
Reinventare i partiti di massa (Volkspartei). Dal punto di vista che ci interessa, i problemi dei partiti di massa del dopoguerra, quelli che esprimevano gli orientamenti maggioritari della cittadinanza, costituiscono una pars pro toto, cioè ci dicono molto dei problemi della società più in generale. Le forze divisive che travagliano i partiti di massa, sono le stesse che travagliano l’intero corpo civile. Tanto che quello che si trova oggi fondamentalmente sotto attacco è la coesione sociale, la struttura unitiva delle nostre società. Di conseguenza in discussione è il modello sociale europeo, espressione di una coalizione del “welfare solidaristico”, quella che riusciva a fare da connettore fra privilegiati e non-privilegiati, fra i settori più bassi e più alti della “middle class”. L’Europa si trova di fronte ad una pericolosa rivolta populista che investe tanto la comunità d’affari neoliberista quanto i professionisti del mondo accademico progressista. Rivolta populista che in una certa misura è ‘prodotta’ proprio dalle élites economiche e culturali. Esse difendono, senza una autentica ponderazione storica e sociologica, il loro bel ‘nuovo mondo’, scintillante, beneducato, intraprendente e assai dinamico. 
Il loro progetto-TINA (there is not alternative) però non fa che creare paura e risentimento fra le non-elite. L’immagine deterministicamente stabilita di un mondo futuro fatto di globalizzazione, confini aperti, libere fluttuazioni di popoli, formazione permanente entro una società della conoscenza è in verità un incubo per le non-elite, per i “perdenti della globalizzazione”. Stando alla ideologia delle élite, considerevoli parti della classe media e della classe operaia hanno di fronte solo degradazione economica e psicologica. Non hanno futuro. E in effetti milioni di esseri umani si sentono alienati, spossessati e decaduti; la società in cui soltanto si sentivano a loro agio, dava loro una posizione onorevole e una identità riconoscibile, è stata spinta ai margini dalla nuova realtà.
Fino a che punto la ideologia della globalizzazione, del multiculturalismo e del cosmopolitismo può essere conciliata con la democrazia nazionale e il comunitarismo proprio del welfare state? Come può la cultura omologante del capitalismo neoliberale ed edonistico convivere con la ricca diversità culturale del mondo? A dispetto delle litanie dei guru del postmodernismo e del cosmopolitismo, che predicano l’auto-abolizione degli stati nazionali a favore dei nuovi centri di potere geopolitici, in verità le instabili e dirompenti correnti sotterranee della società europea impongono prudenza, piuttosto che frenetici discorsi sulla modernizzazione permanente e l’innovazione. Una volta chiamai tutto questo la “pornografia del cambiamento”. Si tratta in alternativa di rivalutare la democrazia legata agli stati nazionali, come presidio di certezza, àncora di salvezza in tempi calamitosi, fonte di coesione sociale fra i meno e i più scolarizzati, fra i migranti e gli autoctoni, ecc. Una rinnovata fiducia fra classe politica e cittadini non potrà che maturare innanzitutto a livello nazionale – l’unica vera e sicura arena democratica – oltre che attraverso la creazione di una armoniosa società multi-etnica. L’integrazione europea dovrebbe facilitare e proteggere questi processi, non sabotarli e contrastarli.
La precondizione per riconquistare la fiducia politica è però rinnovare e reinventare i partiti di massa, come ponte fra i vincitori e i perdenti delle sfide del nuovo mondo. Rinascita dei partiti di massa da intendersi per altro in senso lato, cioè anche come risultato di processi di coalizione che coinvolgano diversi partiti politici, insieme ad attori della società civile (dalle chiese ai sindacati, dai social network agli imprenditori socialmente impegnati) e che dovrebbero realizzare un “new deal” fra privilegiati e meno privilegiati: un patto di assicurazione socio-economica e di apertura culturale. Così da promuovere una nuova idea di progresso, sensibile alle politiche culturali e identitarie (perché un malessere sempre più accentuato, che coinvolge problemi di psicologia sociale e benessere, si sta diffondendo nelle ricche società del welfare). In questo senso è importante riprendere e anzi accentuare la distinzione fra destra e sinistra in politica, solo così si potranno definire scenari alternativi alle nuove tendenze mondiali e combattere il pericoloso cleavage populista fra un malinteso establishement e un altrettanto malinteso “popolo”. Per essere duri con il populismo, bisogna affrontare duramente le cause del populismo.
* Rene Cuperus è un intellettuale olandese, esponente del locale Partito laburista. Testo apparso su “Social Europe” del 4 aprile 2012. Titolo originale: Beyond the Sunday Rhetoric of Social Democratic Basic Values. Traduzione dall’inglese di Fabio Vander.
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