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NAVI TOSSICHE INCHIESTA Ecco come i rifiuti pericolosi sono finiti nei mari calabresi. Dalle industrie del nord Italia

Da Milano al Libano, fino ai fondali della Calabria. Alle radici dello scandalo
Andrea Palladino
ilmanifesto.it
Calma piatta sul mare Tirreno. Due giorni di tempesta mediatica, poi le promesse del governo, che ha annunciato l'immediato invio di una "task force". Nessuno, intanto, è ritornato sul luogo del delitto, a 11,8 miglia nautiche al largo di Cetraro, zona che rientra nelle acque italiane per pochi metri. Anche ai trafficanti a volte accade di sbagliare mira. Conviene dunque riprendere il filo lungo e contorto della rotta dei veleni, che parte dal Nord Italia, ventuno anni fa.
«Forse potremo evitare i missili e la pallottole, ma non i rifiuti tossici - raccontava nel 1988 uno scienziato libanese, dopo essere stato ricoverato in ospedale contaminato dalle scorie italiane - ci troviamo di fronte ad un nuovo tipo di guerra». Era il 5 giugno e ad est di Beirut era apparsi alcuni bidoni che uccidevano, accecavano, a
vvelenavano l'acqua e rendevano sterili le donne. In pochi giorni fu chiara l'origine, l'Italia. E quello stesso scienziato ricoverato in ospedale lanciò per primo l'allarme su quelle sostanze, spacciate per fertilizzante nelle zone interne del Libano. Oggi per ricostruire passo per passo il percorso delle navi dei veleni - inclusa la Cunski - occorre ripercorrere a ritroso le carte nautiche, partendo dalla pianura padana, per arrivare alla Beirut della guerra civile degli anni '80, ultima tappa conosciuta del viaggio delle scorie, prima della definitiva scomparsa.
Tra il 1986 e il 1987 un gruppo di industriali - alcuni con nomi e Cda di peso - prendono contatto con una società particolarmente attiva, la Jelly Wax, con sede a Opera, vicino Milano, nel cuore del nord produttivo. Offriva un servizio preziosissimo, lo smaltimento dei rifiuti tossici. L'industria chimica italiana - erano gli anni d'oro della Montedison, del polo di Porto Marghera, ma anche di Seveso e di tante emergenze
più o meno note - aveva il problema della mancanza di siti idonei anche solo per lo stoccaggio temporaneo degli scarti di lavorazione. Non esistevano, in sostanza, discariche idonee, con tecnologie per lo smaltimento sicuro. Il prezzo offerto dalla Jelly Wax era all'epoca di 500 dollari a tonnellata, per il servizio completo. Cosa accadesse dopo la consegna alla società guidata da Renato Pent poco importava: i camion uscivano dalle fabbriche carichi di fusti e il problema, almeno sulla carta, era risolto.
La società milanese aveva creato una rete fitta di contatti con i signori dei rifiuti sparsi in tutto il mondo. In Svizzera - nel Friburgo - c'era un broker particolarmente interessante, con contatti aperti con paesi africani, dove i controlli - e quindi i costi - non erano di certo così stringenti come in Europa. Si chiama Gianfranco A
mbrosini, attivo nel 1987 come referente della Intercontract SA. La Jelly Wax paga all'intermediario svizzero 272 dollari a tonnellata, con un surplus immediato di 228 dollari (dati forniti dall'associazione francese Robin des Bois in una conferenza stampa nel 2006). Ambrosini organizza il carico: da 2.400 tonnellate - secondo alcune fonti - a 3.000 tonnellate di rifiuti - secondo una denuncia dei Verdi toscani del 1987 - vengono stipati sulla nave Lynx, nel porto di Massa Carrara. Un'operazione che avrebbe fruttato almeno 500-600 mila dollari alla Jelly Wax e altrettanti al mediatore svizzero. Secondo alcune fonti, infatti, Ambrosini aveva firmato un contratto con dei referenti di Gibuti per trattare i rifiuti al costo finale di 36 dollari per tonnellata. Del prezzo originario pagato dalle imprese di 500 dollari ben poco, dunque, andava allo smaltitore africano, terminale ultimo della filiera. Ma qualcosa - quella volta - andò storto.
Il 19 marzo del 1987 i verdi di Massa Carrara denunciarono che a Gibuti in realtà non esisteva nessun impianto di trattamento. La stessa regione Toscana - che aveva accolto il carico diretto al porto di Massa - decise di ritirare tutte le autorizzazioni ai trasportatori di rifiuti del Nord Italia che avevano partecipato all'operazione. Lo scandalo scoppiò e il governo di Gibut
i, a quel punto, decise di rifiutare il carico.
Per risolvere la vicenda intervenne di nuovo la Jelly Wax, che attraverso un intermediario di Panama - la Mercantil Lemport SA - stabilì la nuova rotta per la Lynx, Puerto Cabello, in Venezuela. Contemporaneamente, sempre dai porti italiani, sempre con l'intermediazione della Jelly Wax, un'altra nave stava facendo rotta verso il Venezuela, la cecoslovacca Radhost. Due bastimenti carichi di morte, la Lynx e la Radhost, che quasi simultaneamente sbarcano nel continente latinoamericano nel 1987.
Anche il Venezuela si rende conto quasi subito che il carico della Jelly Wax era mortale. Qualcuno parlò di rifiuti radioattivi - prontamente smentito dall'Enea, ma senza una documentazione certa a supporto - ma già le sostanze chimiche mostrarono rapidamente la natura del carico. «Noi stessi abbiamo sofferto forti bruciori agli occhi e alla gola ed irritazioni al viso e alle mani», raccontavano in un rapporto sui fusti scaricati dalla Lynx alcuni tecnici venezuelani.
Nell'agosto del 1987 il Venezuela ordina alla Jelly Wax l'immediato rimpatrio di tutto il carico della Lynx, mentre alla Radhost viene negato il permesso di scaricare. È il punto
focale della storia: per il governo italiano - e la Jelly Wax - quei due cargo cominciano a diventare troppo ingombranti, va trovata una soluzione, rapidamente.
Il carico della Lynx torna in Italia con la nave Makiri, per poi sbarcare a Genova sulla Zanoobia, nel maggio del 1988. La Radhost andrà invece in Libano, contaminando con il suo carico la zona vicino Beirut. E dal porto libanese prende poi il via la parte finale della rotta infinita dei veleni: quattro navi - contrattate dal governo italiano - alla fine del 1988 caricheranno i fusti da Beirut per riportarli in Italia: la Jolly Rosso, la Cunski, la Yvonne A e la Vorais Sporadies. Solo la Jolly Rosso sbarcherà poi ufficialmente a La Spezia, da dove i fusti verranno trasferiti - dopo più di un anno - a Porto Marghera e Treviso. Della altre tre navi non si avranno più notizie, sparendo di fatto dalle cronache e dagli archivi.
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